Come state?
Per questo lungo fine settimana vi assegno una missione: diventare GIORNALISTI per un giorno.
Chi saranno i vostri bersagli? I vostri nonni.
So che in questo periodo vi mancano molto, allora non c'è migliore occasione di far sentire loro la vostra vicinanza facendogli una bella videochiamata con un'intervista per farli sentire ancora più importanti.
Vi chiedo di intervistare solo un nonno/a a testa, in modo da riuscire a concentrarvi bene sul lavoro da fare.
Come si fa a strutturare un'intervista?
Intanto poniamoci lo SCOPO della nostra intervista che in questo caso sarà: conoscere come era la vita al tempo dei nonni.
Stabilito questo, scriviamo le domande da porre al nostro intervistato (per questa volta seguite queste domande che vi suggerisco io).
QUESTIONARIO
- Quando è nato?
- Dove abitava?
- Come erano fatte le case?
- Quali erano i materiali usati per la costruzione?
- Quali e come erano le stanze?
- Quali erano gli arredi?
- Com’erano la radio e il telefono?
- C’era la TV? Com’era?
- Com’erano le strade?
- Com’erano le auto?
- Che cosa mangiava e beveva?
- Come si vestiva?
- Che giochi faceva da bambino?
- Come si svolgeva la vita a scuola?
- Che lavori si facevano?
- Che monete si usavano?
- In che modo si festeggiavano le feste principali?
Ponete al vostro nonno/a una domanda alla volta e prendete nota delle informazioni principali che vi racconta su un quaderno di appunti, proprio come i veri giornalisti!
Oppure potete anche registrarli e poi riascoltare la registrazione in un secondo momento con calma.
Insomma...una volta che avete raccolto tutto il materiale di cui avete bisogno, inizia la fase di trascrizione delle risposte: iniziate a scrivere il vostro articolo (vi metto un esempio qui sotto scritto da un bambino come voi che ha intervistato il suo nonno, lui ha scritto un testo molto lungo ma voi come sempre fate una via di mezzo).
Per chi ha piacere e ha la possibilità, potete arricchire la vostra intervista con una foto del nonno/a, oppure provare a fare un ritratto.
INTERVISTA A NONNO GINO
Sono nato l’8 agosto del 1935 nella cascina del Buonpensiero, nel comune di Corno Giovine, che
allora era in provincia di Milano, invece adesso è in provincia di Lecco.
Le case erano tutte basse, almeno nella mia cascina; c’erano solo il piano terra e il primo piano.
Noi vivevamo in sei, mamma e papà, due sorelle, mio fratello ed io, in due camere: al piano terra
c’era il soggiorno con il focolare (il camino), un tavolo, sei sedie, una credenza, una cassa per
contenere le farine per fare il pane; infatti allora non c’era il panettiere, il pane si faceva in casa.
Nella credenza si mettevano le stoviglie: i piatti, i bicchieri, i piatti belli per i giorni di festa; in quei
giorni, si mangiava sempre allo stesso modo degli altri giorni, ad eccezione delle feste come il
Natale, la Pasqua, la sagra del paese.
Al piano superiore c’erano i letti per dormire, tutti e sei in un’unica stanza: mio papà e mia mamma
in un letto matrimoniale, le mie sorelle in un altro letto matrimoniale, io e mio fratello in un altro
ancora.
Nella camera c’erano un armadio con dentro pochi vestiti (io non ho mai avuto il paltò o un
giaccone), i letti, i sacchi con dentro il frumento, che veniva conservato lì per poi macinarlo ed
ottenere la farina.
Le case venivano costruite con mattoni, calce e cemento come al giorno d’oggi; nelle campagne,
come dove abitavo io, le case erano costruite con i mattoni e il tetto con i travi di legno.
La radio c’era solo nelle case dei ricchi; io non l’ho mai vista quando ero bambino come voi.
Il telefono, forse, ce n’era uno in paese ed era pubblico; io, da bambino come voi non ho mai visto
il telefono.
La televisione non c’era perché è nata molti anni dopo.
Le strade erano tutte bianche, non esisteva la strada asfaltata, era fatta di terra e sassi; io, alla
mattina, percorrevo due o tre chilometri a piedi per andare a scuola lungo una strada come quella
che va lungo l’Adige.
Nel mio paese c’era una sola auto, che si chiamava Balilla; la possedeva il più ricco del paese. Non
c’erano né traffico né inquinamento. Per le strade si vedevano solo carri e biroccio (una specie di
carrozza a due ruote) trainati dai cavalli.
Il biroccio veniva usato dal padrone della fattoria, che andava in città, al mercato una volta alla
settimana. Il birroccio era guidato dal cocchiere e lui si faceva portare perché era il padrone.
Quando si feriva una persona, ad esempio un contadino mentre lavorava, veniva portato
all’ospedale con il biroccio o con la carrozza e ci impiegavano anche un’ora, un’ora e mezza perché
l’ospedale era lontano e perché i veicoli andavano piano. Non come adesso che le ambulanze
impiegano dieci minuti!
In città, il padrone della fattoria andava al mercato per vendere le merci e, una volta all’anno, il
giorno di San Martino, cercava dei nuovi contadini che andassero a lavorare da lui e con loro
stipulava dei nuovi contratti di lavoro.
Per questo motivo, io, da bambino, ho fatto quattro o cinque
traslochi perché, quando mio padre cambiava padrone e andava a lavorare in una nuova fattoria, si
spostava tutta la famiglia; si faceva il trasloco, si caricava tutta la mobilia su un carro trainato dai
cavalli e si andava ad abitare in un’altra cascina.
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A tavola si beveva solo acqua, anche mio padre, che non ha mai bevuto vino. Il vino lo beveva solo
il padrone, quasi tutti i giorni. Si mangiava molto male; ricordo che mangiavo tanta polenta e latte
allungato con l’acqua.
A mezzogiorno si mangiava riso e fagioli in brodo, alla sera … riso e fagioli
in brodo! La carne, la vedevo sì e no una volta all’anno ed era la carne di pollo o di gallina perché
mia mamma li allevava, ma non per mangiarli, bensì per venderli e guadagnare qualche soldo; le
galline erano allevate soprattutto per le uova. Il pollivendolo andava per le cascine e urlava: “Ghe el
polarol!” ; le donne gli vendevano le uova, le galline e i polli.
Io mi vestivo sempre con un paio di pantaloncini corti e una camicia, che mi faceva mia mamma
perché allora non c’erano i negozi che vendevano i vestiti; il maglione, se uno ce l’aveva, era
perché glielo aveva fatto la mamma, anche le calze mi faceva. D’estate ero sempre scalzo e tutte le
sere andavo a lavarmi i piedi nel ruscello che passava davanti a casa; per tornare a casa senza
sporcarci mettevamo gli zoccoli. Io non ho mai avuto delle vere scarpe, avevo quelle che mi faceva
mio padre; erano fatte con la suola in legno e con la tomaia (la parte sopra) in pelle; le usavo solo
d’inverno.
Io ho giocato quasi sempre col pallone a calcio perché non esistevano altri giochi; il pallone era
fatto di stracci cuciti insieme ed era pesante.
Giocavo anche a s-cianco: usavamo un pezzetto di
legno con le punte, appoggiato su una pietra e picchiato sulla punta con un bastone. Noi bambini
giocavamo anche a far correre il cerchio, che recuperavamo dalle ruote delle biciclette rotte; solo i
ricchi avevano il cerchio di legno.
A scuola avevo una maestra che si chiamava Roberta, ma la chiamavano Bertina. Una volta le
maestre ti menavano con una bacchetta sulle mani e ceffoni in faccia, tiravano anche gli orecchi.
Bastava dare una risposta sbagliata che spesso arrivava un ceffone; si doveva stare sempre seduti al
banco con le braccia dietro alla schiena o “conserte” davanti e non si poteva parlare. In classe
eravamo anche in trenta bambini.
Per scrivere usavamo la matita o una penna con un pennino, che
intingevamo nel calamaio pieno di inchiostro. Al mattino passava la bidella a riempire i calamai con
l’inchiostro.”
Andavo a scuola a piedi, da solo perché i miei genitori lavoravano in campagna, tutte le mattine
tranne la domenica; camminavo per circa mezz’ora.
Stavo a scuola tutto il giorno e mangiavo là, mangiavo meglio che a casa mia, anche se c’era
sempre minestra di riso con i fagioli o con le patate. Ci davano da mangiare tanti fagioli perché
sostituivano le proteine della carne, che non mangiavamo mai.
Al mattino prima di andare a scuola, la mamma mi obbligava a bere un cucchiaio di olio di fegato di
merluzzo perché faceva bene alle ossa.
Avevamo un’ alimentazione povera e rischiavamo di
ammalarci, allora dovevamo prendere quell’olio che ci dava un po’ di sostanze in più.
Mio papà faceva il contadino, ma non era il proprietario delle terre che lavorava, era un bracciante,
cioè lavorava le terre di un altro, che era il suo padrone. Coltivava il frumento e il granoturco. Nella
fattoria c’era anche il mungitore, che mungeva le mucche; doveva farlo tutti i giorni, due volte al
giorno: alle cinque della mattina e alle cinque del pomeriggio; ogni dodici ore, altrimenti le
mammelle delle mucche si riempivano troppo di latte e le bestie si ammalavano.
Anche mia mamma lavorava nei campi, aiutava mio padre a mietere e a raccogliere il frumento a
giugno, il granoturco e il riso a ottobre; con la farina di frumento si fa il pane e la pasta, con la
farina di granoturco si fa la polenta e noi facevamo anche il pane. Con i cartocci del granoturco o
con la paglia si riempiva un sacco bianco e si faceva il materasso. Nel latte noi mangiavamo anche
la polenta abbrustolita, ma non mettevamo lo zucchero perché costava troppo; in tempo di guerra, io
ci aggiungevo un po’ di sale.
Anch’io a 8 anni aiutavo nei campi come tutti gli altri bambini figli di contadini; avevo i calli nelle
mani perché tutto il lavoro veniva fatto a mano.
Da giovane ho fatto il salumiere e poi altri lavori. Una volta, il bucato si faceva in primavera, le lenzuola si cambiavano ogni due o tre mesi; una volta
la gente era molto più sporca di adesso.Una volta non c’erano i detersivi che ci sono adesso, lavavano le lenzuola in enormi pentoloni
dove mettevano acqua e cenere, e le facevano bollire; le lenzuola diventavano bianchissime.
Per fare
un bucato impiegavano anche due giorni. Poi venivano stesi su lunghi fili. I vestiti venivano lavati
al fiume. Il sapone veniva fatto col grasso del maiale mischiato alla soda caustica, lo facevano
bollire fino a che diventava un pastone giallo che poi veniva fatto raffreddare e tagliato a pezzi.
Si usavano le lire: 1 centesimo, 5 centesimi, 10 centesimi, 50 centesimi e 1 Lira; io di centesimi ne
ho visti pochissimi!
A Pasqua la mamma colorava le uova sode, quasi sempre di azzurro con una carta blu bagnata; a
Natale non esisteva il panettone e non mangiavamo neanche la torta, solo alla festa del patrono, la
mamma cucinava delle crostate con la marmellata che faceva lei.Durante queste feste si mangiava
la carne di pollo arrosto e si usavano i piatti belli.
Inviatemi la vostra intervista entro venerdì 8 maggio.
Un abbraccio,
Maestra Erika
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